La Giornata Mondiale della Salute Mentale, un appuntamento dedicato anche ai tanti giovani che vivono nella solitudine e nel disagio

Anche in questo 2022 - come accade ormai da diversi anni, la prima edizione ha avuto luogo nel 1992, istituita dalla Federazione Mondiale per la Salute Mentale (WFMH) e riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità - il 10 ottobre ricorre la Giornata Mondiale della Salute Mentale, ricorrenza nata per promuovere la consapevolezza e la difesa della salute mentale contro lo stigma sociale.

Il tema proposto quest'anno è "Rendere la salute mentale e il benessere di tutti una priorità globale" che, come sottolinea il dott. Cosimo Argentieri, psichiatra e psicoterapeuta, Direttore Sanitario e Responsabile Scientifico e Qualità di Neomesia, «significa mettere al centro l'esigenza di considerare la salute mentale come elemento integrato con la salute fisica e sociale, nel rispetto di quanto già indicato nell'atto costitutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, in cui la salute viene definita uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplicemente l'assenza di una malattia o di un'infermità».

Il tema proposto in questa giornata, sottolinea il dott. Argentieri, comporta due aspetti importanti: «Il primo è la riproposizione della lotta allo stigma della salute mentale. Cioè: della salute mentale se ne può parlare e si possono affrontare sia gli aspetti specifici, sia quelli integrati che rimandano a una visione in cui lo psichico è legato al fisico e al sociale.
Il secondo aspetto è quello di porre la massima attenzione alla salvaguardia del benessere di tutti, come elemento prioritario in cui si attua un'integrazione e un intervento complessivo che partendo dalla persona coinvolge la società e l'ambiente. Tale necessità assume oggi un particolare significato, visti gli effetti della pandemia che hanno richiesto una maggior consapevolezza dei processi di integrazione e una visione complessiva in cui la società e l'ambiente sono determinanti per il benessere di tutti».

Dottor Argentieri, parliamo proprio di questo momento particolare concentrandoci sui giovani. Qual è la situazione da questo punto di vista?

«È un dato assodato che durante la pandemia c'è stata un'evidente esplosione del problema del disagio giovanile complessivamente inteso. Tutti i dati raccolti dalla letteratura scientifica nazionale e internazionale, e dalla stessa Unicef, mettono in evidenza che gli effetti della pandemia hanno prodotto un'amplificazione del disagio psichico, fisico e ambientale, la cui incidenza, lo dicono i numeri, è addirittura raddoppiata rispetto a prima».

Come si esprime questo disagio? Ci sono differenze rispetto a quanto accadeva prima della pandemia?

«Si è evidenziato un aspetto particolare, che abbiamo avuto modo di verificare anche noi nelle nostre strutture Neomesia per giovani e minori, una di queste la Beata Corte di Caccamo: c'è stato un parziale viraggio dai cosiddetti disturbi della condotta a disturbi che riguardano soprattutto la sfera depressiva e ansiogena. L'ansia da stress post-traumatico, la depressione, il discontrollo delle funzioni emotive hanno determinato un disagio che tende a manifestarsi con atti e gesti di tipo autolesionistico. Un fenomeno che in precedenza era prevalentemente femminile, ma a seguito della pandemia si è diffuso anche nella sfera maschile. Stiamo parlando di numeri particolarmente significativi, circa il 50% dei giovani».

Come si manifesta questo autolesionismo dei giovani?

«Si manifesta anzitutto attraverso un fenomeno nuovo che viene definito cutting e si manifesta con azioni come tagliuzzarsi la pelle di gambe e braccia con lamette. Ma l'autolesionismo può apparire sotto altre forme, come il procurarsi dolore fisico, ustionarsi e, quando si arriva all'estremo, nel tentare il suicidio. Non è un aspetto da sottovalutare, questo: oggi il suicido nei giovani sta diventando la seconda causa di decesso dopo gli incidenti stradali. Una situazione che richiede la messa in campo di una grande capacità di presa in carico dei giovani».

Le conseguenze del disagio giovanile sembrano dunque, in questo momento storico, rivolgersi verso la propria persona. Dal punto di vista dei comportamenti verso l'esterno, invece, com'è la situazione?

«Le manifestazioni del proprio disagio verso l'esterno sono diminuite parzialmente, anche se permane un costante atteggiamento di tipo etero-aggressivo nei riguardi delle persone e degli oggetti, come espressione di "disturbi della condotta". Il problema, in questo caso, è che spesso ai giovani manca un sistema valoriale che sappia fornire indicazioni nel momento in cui tutto sembra diventare evanescente, incerto e fumoso. La mancanza di un supporto psicologico e sociale contribuisce a scatenare la rabbia che altro non è che l'espressione di una profonda solitudine. La pandemia ha aumentato, come sappiamo, questa condizione di solitudine e per quanto il sistema si sia attrezzato - anche con la telepsichiatria, cioè la psichiatria da remoto - quanto messo in campo non è ancora del tutto sufficiente rispetto a quello che è il bisogno personale emergente».

Il disagio giovanile si manifesta anche sotto altre forme?

«Oltre all'aggressività, rivolta verso l'esterno o verso la propria persona, si registrano oggi molti casi di disturbi dell'alimentazione e di disturbi del sonno. I disturbi alimentari riguardano, si è calcolato, circa 2,3 milioni di adolescenti, per quanto riguarda quelli del sonno si è calcolato che quasi il 64% dei più giovani dorme meno delle 8 ore che rappresentano la quota minima necessaria per vivere bene. La mancanza di sonno nelle ore notturne non permette alle persone di rigenerarsi e di ben operare durante le ore diurne. Se poi questa condizione si va a sovrapporre a una condizione di solitudine, si viene a creare una situazione molto delicata su cui è necessario intervenire con una presa in carico appropriata».

Che cosa si deve fare in presenza di un disagio, che cosa si intende, nello specifico, quando si parla di "presa in carico dei giovani"?

«Prendere in carico i giovani significa non farli sentire soli, condividere il loro livello di sofferenza, fornirgli gli strumenti per potere fare i conti con i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie difficoltà. Significa, concretamente, fornire loro strumenti che vanno dallo psico-educativo per i casi più lievi allo psico-terapico e psicofarmacologico per le situazioni contraddistinte da gradi di sofferenza particolarmente elevati».

È importante, da questo punto di vista, coinvolgere anche le persone che sono più vicine ai ragazzi?

«È fondamentale, accanto alla presa in carico individuale, relativa al giovane, è importante che la famiglia venga accolta, supportata e non dimenticata, perché il primo ambiente in cui il ragazzo vive è la famiglia e come tale questa deve essere coinvolta nell'azione di aiuto messa in campo. L'assenza di un piano valoriale per i giovani di cui parlavo prima, è dovuta soprattutto al fatto che oggi la famiglia è molto cambiata, non riesce ad essere sempre il vero punto di riferimento dei giovani. È importante dunque capire il mutamento che è in atto e informare, educare, dare strumenti e ascoltare le famiglie, che mai come oggi hanno la vera esigenza di essere aiutate nella loro opera di crescita di bambini e adolescenti».

Spesso i giovani d'oggi si sentono dire che "non hanno voglia di fare niente". Che cosa si può fare per evitare che una definizione di questo tipo contribuisca a lasciare ancor più soli giovani e adolescenti che attraversano veri momenti di difficoltà e disagio?

«Questo è proprio il messaggio che viene lanciato dalla Giornata Mondiale della Salute Mentale 2022. Bisogna saper condividere con i giovani la sofferenza e il bisogno. Bisogna fornire loro strumenti che consentano loro di raggiungere un'inclusione sociale davvero efficace. Questo è un aspetto molto importante: dobbiamo saper rendere abile una persona al vivere sociale, secondo il suo sistema valoriale. L'errore più grosso che può essere commesso quando c'è una presa in carico è quella di voler "cambiare la testa alle persone". Si tratta invece di capire quali sono i veri bisogni e i sistemi valoriali di ciascuna persona, così da poterla aiutare affinché questi sistemi valoriali non rappresentino un blocco, ma siano integrati e funzionali nella società.
Questa è la sfida: passare dall'integrazione all'inclusione, permettere al soggetto debole di tornare a essere attivo nella società, per quello che è, con i suoi valori e le sue debolezze».

2022-10-10